Illustrazione digitale orizzontale che ritrae una giovane giornalista sotto pressione, circondata da commenti online ostili e simboli digitali, a rappresentare il tema della diffamazione e dell’odio sui social

Nel panorama digitale odierno, dove ogni utente è potenzialmente un “comunicatore pubblico”, è fondamentale chiarire cosa si intende per diffamazione a mezzo stampa o social. Una linea sottile separa la libertà di espressione dalla lesione dell’onore altrui, e in un contesto sempre più polarizzato, questo confine rischia spesso di essere superato.

Cosa si intende per diffamazione

Secondo l’art. 595 del Codice Penale, la diffamazione si configura quando qualcuno, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione. Se il fatto è commesso a mezzo stampa o con altro mezzo di pubblicità, la pena è più severa. Oggi, i social network sono considerati a tutti gli effetti “mezzi di pubblicità” per la loro capacità di rendere virale qualsiasi contenuto.

In questo contesto, anche una story su Instagram, un commento su Facebook o un tweet possono avere conseguenze penali se contengono affermazioni false, offensive o lesive della dignità di una persona o di un gruppo.

Satira, critica e hate speech: dove si trova il confine?

La satira gode di una particolare tutela in quanto espressione artistica e politica. Come stabilito dalla Corte di Cassazione, la satira è un diritto costituzionalmente garantito, ma non deve mai degenerare in insulti personali gratuiti o diffamazione.

Allo stesso modo, anche la critica giornalistica è protetta, purché si mantenga entro i limiti della verità, dell’interesse pubblico e della continenza espressiva. Tuttavia, quando la critica si trasforma in linguaggio d’odio (hate speech), soprattutto se diretta verso gruppi vulnerabili, il discorso cambia: ci troviamo in un terreno in cui il diritto penale interviene a tutela dell’ordine democratico e dei diritti fondamentali.

Per approfondire come riconoscere e prevenire il linguaggio d’odio in rete, leggi il nostro articolo su hate speech, consapevolezza digitale e strumenti OSINT.

Diffamazione sui social: la responsabilità è sempre personale

Chi scrive, commenta o condivide contenuti online è responsabile penalmente e civilmente dei contenuti pubblicati. La giurisprudenza ha stabilito che i social network sono equiparabili alla stampa, e in molti casi la diffamazione via social è stata punita in modo analogo a quella su giornali, TV e radio.

Un caso emblematico riguarda le giornaliste attaccate sui social con insulti sessisti e minacce: comportamenti che rientrano sia nella diffamazione, sia nel più ampio fenomeno dell’hate speech online, affrontato anche dalla Polizia Postale e dalle autorità giudiziarie.

Esempi dal mondo dello sport: la diffamazione è sempre dietro l’angolo

Il mondo dello sport, in particolare il calcio, è spesso teatro di commenti infiammati che, oltrepassando il confine del tifo, sfociano nella diffamazione.

Un caso noto è quello che ha visto protagonista Carlo Ancelotti, allenatore di fama internazionale, accusato pubblicamente sui social da alcuni utenti di comportamenti non professionali. Le accuse, prive di fondamento, hanno spinto l’allenatore a valutare azioni legali per diffamazione.

Altro esempio è rappresentato dal calciatore Mario Balotelli, più volte bersaglio di commenti razzisti e diffamatori sui social, che hanno generato l’intervento delle piattaforme e della giustizia sportiva. In questi casi, l’intento diffamatorio non si è limitato a insulti personali, ma ha avuto un chiaro impatto sulla reputazione pubblica degli atleti, tanto da richiedere l’intervento della magistratura e della Polizia Postale.

In tempi recenti, anche la cronaca sportiva è stata messa sotto accusa. Alcuni articoli di giornale, o commenti televisivi, hanno suscitato l’indignazione di tifoserie o diretti interessati, portando a denunce per diffamazione a mezzo stampa. Quando la critica sportiva supera la soglia del buon gusto e si trasforma in attacco alla persona, può configurarsi come reato.

Libertà di stampa e tutela dell’onore

Nel dibattito su questi temi, va sempre ribadito che la libertà di stampa è un diritto costituzionale e un pilastro della democrazia. La legge non vuole censurare l’opinione o la denuncia pubblica, bensì punire la falsità, la volontà lesiva e la violenza verbale.

Un giornalista può e deve raccontare la verità, anche scomoda, ma deve farlo rispettando la deontologia professionale. Allo stesso modo, chiunque pubblichi sui social ha il dovere di esprimersi con verità, correttezza e responsabilità.

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La libertà non giustifica l’odio

L’articolo 21 della Costituzione italiana garantisce la libertà di manifestazione del pensiero, ma questa non può mai tradursi in offesa gratuita, calunnia o incitamento all’odio.

In un momento storico in cui i confini tra informazione, opinione e attacco personale sono sempre più labili, è fondamentale promuovere una cultura digitale consapevole, che sappia distinguere tra critica legittima e violenza verbale. Solo così potremo difendere davvero tanto la libertà di parola quanto la dignità di ciascun individuo, sia esso cittadino comune, sportivo o professionista della comunicazione.

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